Da "SPEAK NO EVIL" - Wayne Shorter -

 

Leggende, folklore e magia nera - le arti oscure e misteriose - sono state a lungo per gli artisti una particolare fonte d'ispirazione, forse perché la loro simbologia è stata ricavata dalle radici dell'immaginazione. Uno dei migliori esempi lo si trova in un'opera di Edgar Allan Poe, il quale mise a nudo senza timori, le fantasie proibite che si accumulano verso la fine dei sogni. Anche i compositori hanno esplorato dimensioni come questa. Il "Valse Triste" di Sibelius, "L’apprendista Stregone" di Duka, il "Castello di Barbablù e Mussorgsky's Night On The Bare Mountain" di Bartok, sono solo alcune delle opere più conosciute, che si possono far risalire alla magia, alle leggende e al folklore.

La raccolta delle composizioni di Wayne Shorter che si trovano in Speak No Evil seguono una linea comune. "Stavo pensando" mi spiegò, "a paesaggi nebbiosi con fiori selvatici e strani, dove i contorni non erano facilmente distinguibili; quei tipi di paesaggi dai quali sono nati leggende e folklore. E poi stavo anche pensando a cose come i roghi delle streghe". Buona parte di queste sensazioni permeano le sue composizioni, specialmente le armonie fluttuanti, gli accordi gonfi di ambiguità che disturbano le armonie, che prendono una direzione, ma che talvolta si fermano per galleggiare come gli elementi dei suoi "paesaggi nebbiosi". L'effetto viene intensificato dalla straordinaria interazione tra Ron Carter ed Elvin Jones. Quando suonano sembra che si verifichi qualcosa che assomiglia ad un cronometraggio, ma non si tratta di una particolare individuazione del tempo, piuttosto di uno scorrere, talvolta un sovrapporsi, ed altre volte di una vibrazione indipendente che scivola via tra suddivisioni metriche sovrapposte.

Shorter, nell’arco della sua carriera, ha spaziato tra diverse occasioni e parecchi generi musicali, alcuni dei quali, come per la maggior parte dei jazzisti, erano ben lontani dai suoi obiettivi. Egli riconosce tuttavia, che i cambiamenti operati nell’arco di molti anni di attività, gli hanno sostanzialmente permesso di ampliare la propria visione artistica. "Ricevo molti più stimoli dall’esterno. Prima, avevo come punto di riferimento solo me stesso, le mie radici etniche e così via, ma ora e per il futuro il mio impegno è quello di aprirmi, di mettermi in relazione con l’universo delle cose anziché chiudermi in un angolo". Ciò rappresenta una ventata d’aria fresca, soprattutto nel momento in cui l’espressione delle intime emozioni rappresenta il centro focale per molti giovani musicisti.

"Tutto ciò che ho rivisto e modificato, fa ormai parte di me, ribolle in qualche parte del mio corpo, ma non si rivela completamente. Durante la realizzazione di questa incisione, stavo lottando per farlo finalmente emergere, per dimenticare il sax, i connessi problemi tecnici, e per lasciar perdere tutto quello che avevo fatto prima". Come la maggior parte dei piccoli e timorosi passi in avanti che hanno caratterizzato la crescita artistica di Shorter, le sue lotte non hanno sempre prodotto i risultati attesi. Ma quando tutto funziona, quando il sax cessa di essere solo uno strumento, per diventare un prolungamento della sua voce (ed in questo disco in più occasioni lo si può notare), l’importanza degli scopi che Shorter si è prefisso, incominciano a diventare chiari.

Whitch Hunt (Caccia alle streghe) utilizza nella melodia, le quarte, che ne sono l’ossatura e la caratteristica dominante del blues, ma l’incanto e la spiritualità dell’esecuzione, giustificano interamente la scelta del titolo di questo brano. È interessante notare il fatto che tutti i solisti, prima Shorter, poi Hubbard ed Hancock, usino una quarta per la strutturazione dei loro assoli. Il secondo brano, Fee-Fi-Fo- Fum, è un’antilogia della strofa recitata dal gigante nella storia di Jack and the Beanstalk. Tuttavia, dubito che quella mostruosa creatura si sia mai aggirata per il proprio castello con quella naturalezza che Shorter e gli altri raggiungono. Hubbard che apre, suona con un lamentoso lirismo, ma, ed è ciò che lo contraddistingue, colora i suoi fraseggi con improvvise accelerazioni, veloci variazioni di ritmo. Shorter si lancia in un ardito assolo, dandogli colore con incantevoli spettri timbrici piegando e macchiando le tonalità, con un’imboccatura assai flessibile. Egli aveva notato la relazione tra Dance Cadaverous (Danza Cadaverica) ed il Valse Triste di Sibelius, ma l’ispirazione gli venne suggerita da qualcosa d’altro. "Stavo pensando a quelle fotografie appese sulle pareti delle aule scolastiche che ritraggono i medici mentre si apprestano a lavorare su di un cadavere". La caratteristica musicale più rilevante nella linea di Shorter, è il ricorrente cambio di accordi cromatici. Il primo accordo di Hancock, delicato come un sonetto, fluttua sulla complessa rete ritmica di Carter e Jones. Vale la pena notare come dall’assolo di Shorter sbocci la melodia ricorrente.

Sia Hubbard che Shorter, azzardano un’insolita serie di improvvisazioni nei ritornelli di Speak No Evil. I particolare Shorter sembra interessato alla ricerca di spunti ritmici e melodici liberi da limiti convenzionali. Infant Eyes, è l’unico brano che si abbandoni alla magia e al folklore: "Stavo pensando a mia figlia" disse Shorter. Il pezzo è strutturato in un modo poco ortodosso, cioè in tre consecutivi fraseggi di nove battute. Shorter suona nella maggior parte del brano, tranne che durante l’assolo di Hancock e nelle brevi nove battute di assolo verso la fine. Sentite come la chiara spontaneità del suono del tenore di Shorter assomigli alla timbrica vellutata e dai toni medi del violoncello. Wild Flower può essere ascoltata, secondo Shorter, semplicemente come suggerisce il titolo: un’ode al Fiore Selvaggio. Questa, è una melodia in 6/4, basata su una linea allegra e spensierata, e che probabilmente rimarrà a lungo nella vostra mente anche quando avrete spento il giradischi. I solisti -Shorter, Hubbard ed Hancock- suonano con originalità, ed oltre a loro vale la pena notare il meraviglioso accompagnamento contro corrente di Elvin Jones. Niente del suo talento viene risparmiato nella capacità di sapersi adattare in un componimento musicale dato, ricavando per sé uno spazio complementare in cui dar libero sfogo al potenziale interpretativo.

Leggende, folklore e magia nera; tutte fonti di ispirazione artistica. Ma nulla dell’opera di Shorter e della sua band lascia presagire segreti negromantici. In Speak No Evil essi si appoggiano all’essenza della conquista artistica, al talento, all’abilità e all’immaginazione.

 

—DON HECKMAN, Editorialista Jazz, The American Record Guide

 

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